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Drop City intervista Maicol Negrello


Drop City intervista il ricercatore Maicol Negrello

Oggi Drop City intervista Maicol Negrello. Architetto, classe 1990, Maicol consegue il titolo di dottore di ricerca presso il Politecnico di Torino. Le sue ricerche si concentrano sull’integrazione degli elementi naturali all’interno del contesto urbano e rurale, con un particolare interesse per le soluzioni basate sulla natura (NBS) e l’agricoltura fuori-suolo, quest’ultima oggetto della sua tesi di dottorato ( “Architecture for urban agriculture. Spaces and architectures for commercial indoor “zero-acreage farms”).

Quali possono essere i pro e i contro di introdurre impianti di agricoltura fuori suolo all’interno del tessuto urbano?

La premessa è che ogni progetto è site specific. Considerare dove posizionare un progetto di agricoltura urbana in città è una delle principali questioni, da cui dipendono molti risvolti, tra cui il successo della farm. È fondamentale individuare la finalità dell’intervento di agricoltura. Facendo riferimento a Torino, per citare un esempio, se ci si trova a Mirafiori il progetto di agricoltura indoor avrà ricadute maggiormente legate agli aspetti sociali, considerata l’ubicazione del quartiere. Viceversa, per quanto riguarda le aree più centrali della città, tra le quali anche le aree interessate da processi di rigenerazione come per il caso di Aurora, prossime al centro, possono ospitare delle progettazioni pilota commerciali in quanto potrebbero attrarre sia persone che possiedono una certa capacità economica di supportare gli acquisti sia maggiori flussi di passanti, scuole, turisti.

Tra i pro ci sono sicuramente l’innovazione, la sperimentazione, il fatto di avere una produzione permanente di prodotti locali e freschi tutto l’anno, creando marchi locali “Made in” come alcune aziende statunitensi che hanno fatto della propria ubicazione uno slogan commerciale come il “Made in Brooklyn” della Farm Gotham Greens. Si tratta di tecniche di produzione che immettono sul mercato prodotti che si possono permettere di acquistare fasce di popolazione con redditi medio-alti, ma ci sono anche sperimentazioni low tech che possono essere adatte anche a realtà più marginali e economicamente svantaggiate.

Resta il fatto che si tratta di un sistema tecnologico schiavo del sistema energetico, è questo è sicuramente un elemento che, se non valutato con attenzione, diventa molto impattante.

Tra i contro c’è sicuramente il costo dell’investimento che è molto elevato e quindi è bene sin da subito considerare il payback period. Tutto ciò che richiede una pianta è energia solare, derivata dai led, energia per il raffrescamento e il riscaldamento, per regolare l’umidità.

Un altro contro è a livello normativo. Non c’è al momento un regolamento sull’agricoltura urbana fuori suolo che permetta questa attività in città. Per esempio, il piano regolatore di Torino, ma non solo, non la considera l’agricoltura tra le attività produttive che possono svilupparsi in città. In quanto l’innovazione di questa realtà non è stata ancora assimilata dalle norme. Il building code non esiste per una serra agricola urbana, quindi, impianti di questo tipo devono seguire il normale standard per abitazioni, standard elevatissimi di prestazione, come se fossero adibiti a funzioni residenziali e non produttive.

All’estero c’è più flessibilità di norme, mentre in Italia ci sono vuoti normativi. Ci sono limiti burocratici ma anche limiti dettati dallo spazio produttivo in cui le piante possono crescere. Le piante hanno dei loro tempi di produzione.

Tornando al tema del recupero dell’investimento iniziale, il business model – in base ai casi studio analizzati-non può essere basato solo sulla produttività, ma andrebbe integrato con attività collaterali come corsi di formazione, visite, esperienze, etc, come accade in molte realtà internazionali.

In Italia, tra le difficoltà di introdurre nel tessuto urbano e nella cultura del cibo le colture fuori suolo è la diffidenza del consumatore che – non conoscendo la tecnica- individua questo prodotto come “artificiale” prediligendo tecniche di coltivazioni tradizionali ma non per questo più sane e sicure. Bisogna cercare di educare le persone e informarle in merito a queste tecnologie.

Nel contesto del cambiamento climatico in corso, con periodi di siccità o eventi meteorologici estremi, come fenomeni alluvionali catastrofici, che provocano la perdita di produttività, l’agricoltura indoor potrebbe rappresentare una soluzione per alcune colture. Tuttavia, tale tecnologia non è applicabile a tutte le colture, ad esempio il grano o il mais, poiché richiede la ricreazione di un ambiente semi-naturale su vasta scala per consentire la crescita delle piante.

Un altro problema riguarda la sostenibilità, sia dal punto di vista ambientale che economico. Ad esempio, considerando una serra, durante l’inverno si registrano costi elevati legati al riscaldamento necessario per garantire l’integrità delle piante, e la mancanza di luce naturale richiede l’utilizzo di lampade a LED per favorire una crescita sana. Inoltre, non esistono sovvenzioni o prezzi agevolati per questa tipologia di attività in quanto la produzione indoor non è regolamentata. È importante anche considerare l’elevato costo del personale specializzato necessario per gestire tali sistemi.

Tra i contro troviamo anche una possibile incertezza nell’accogliere questa nuova pratica poiché spesso l’utente è ancora attaccato al concetto decisamente naïf di naturalità nell’agricoltura tradizionale, si tratta di un’idea che non sempre rispecchia la realtà. Come è noto, è molto diffuso l’uso di pesticidi e fertilizzanti nelle coltivazioni a pieno campo ha decisamente impatto sugli ecosistemi, sulle falde e le trame blu.

Riguardo il tema della sostenibilità in merito ai fertilizzanti, nell’agricoltura biologica si utilizzano elementi di scarto per fertilizzare naturalmente; nell’agricoltura indoor i fertilizzanti sono di estrazione (la cava) o derivati da altri processi chimici che immettono all’interno del fertilizzante stesso un enorme quantità di energia, generando così un’impronta di carbonio elevatissima. È quindi opportuno farne un uso consapevole, sebbene nell’agricoltura indoor non ci sia perdita di fertilizzante come invece avviene in campo aperto.

La transizione verso cui bisogna andare è sicuramente il recupero dei campi, l’utilizzo attento della produzione (evitando la monocoltura) e l’uso di fertilizzanti naturali. In alcune zone l’agricoltura indoor è dettata dal clima e dall’impossibilità di coltivare in altro modo.

Questa produzione può essere una possibile soluzione assieme ad altre tecnologie. Non è sicuramente totalmente la risoluzione ottimale ai problemi legati al cibo e al cambiamento climatico, ma sicuramente è una delle soluzioni possibili per far fronte al problema.

In merito ai costi energetici, ci sono esempi di paesi che hanno adottato politiche che incentivano questo tipo di agricoltura?

Un esempio significativo è rappresentato da New York City, dove l’amministrazione ha dimostrato un’attenzione particolare nei confronti dell’agricoltura urbana come strumento per la produzione, l’adattamento e la mitigazione degli effetti climatici. Questa città è caratterizzata da una difficoltà nel reperire cibo salutare e fresco, poiché gran parte deve essere importata.

New York City ha offerto l’opportunità di praticare l’agricoltura tradizionale sui tetti degli edifici, sfruttando così le superfici come mezzo per assorbire l’acqua e contribuire a evitare sovraccarichi nel sistema di drenaggio durante forti piogge.

Un aspetto altrettanto importante riguarda la comunicazione e la narrazione utilizzate per informare e coinvolgere le persone riguardo all’intervento e al progetto in corso. È fondamentale educare le persone a queste nuovi approcci, produzioni e tecnologie, creando consapevolezza e promuovendo una migliore comprensione del valore e dei benefici derivanti dall’agricoltura urbana.

È importante prevedere incentivi che riducano i consumi e portino il progetto a diventare climate/carbon neutral, ossia che queste nuove attività si rendano indipendenti dalla rete esterna dal punto di vista delle risorse, così come l’acqua che deve essere raccolta, riutilizzata e riciclata.

Quali possono essere dei suggerimenti per un pianificatore urbano che deve decidere come inserire queste tecniche all’interno del tessuto urbano?

Sono favorevole all’integrazione di questa forma di produzione urbana in specifici contesti, tuttavia, è necessario trovare un equilibrio che risulta complesso da raggiungere.

Una possibile soluzione consiste nell’istituire un sistema integrato che sfrutti le serre in modo efficiente. Ad esempio, durante l’estate, le serre possono azzerare il consumo energetico per l’illuminazione artificiale in modo da compensare l’aumento dei costi di raffrescamento. Inoltre, le coperture delle serre potrebbero essere integrate con griglie fotovoltaiche, schermando parte della luce solare in ingresso e mitigando così il calore accumulato.

Un suggerimento valido è quello di puntare a un sistema di neutralità energetica, in cui l’agricoltura indoor possa autoprodurre energia, cibo e nuove economie, integrandosi con l’edificio e il contesto in termini di metabolismo urbano. Ciò implica anche l’integrazione tra l’agricoltura indoor e quella tradizionale, nonché la sinergia con altre attività come eventi, mostre ed esperienze, allo scopo di aumentare i ricavi e ridurre i costi.

Un esempio concreto di integrazione sono le “farm integrate circolari”, che recuperano l’energia dispersa da altre attività e la riutilizzano all’interno delle serre, ad esempio sfruttando l’aria esausta proveniente dalla ventilazione meccanica di un supermercato (come il caso di Gotham Green a Brooklyn). Le serre diventano quindi dei veri e propri dispositivi in grado di catturare l’aria esausta dell’ambiente circostante, fungendo da filtri di produzione di ossigeno. Un’altra soluzione di integrazione consiste nella creazione di un tessuto urbano ricco di queste indoor farming che operano in rete, producendo prodotti diversificati e prevedendo un centro di raccolta e distribuzione, così da creare una supply-chain interno alla città.